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Editoriale
di Gabriella Lai
C'è ancora spazio per la chimica in Sardegna?
di Gherardo Gherardini
Ore decisive per le industrie di Portovesme

IL PIANO STRATEGICO DELLA CITTA' DI CAGLIARI - Sintesi del documento approvato dal Consiglio comunale il 22 settembre 2009

 

Ore decisive per le industrie di Portovesme
di Gherardo Gherardini

 

Da quasi quarant’anni pilastro portante dell’economia del Sulcis-Iglesiente, il polo industriale di Portovesme sembra non reggere più. La cronaca quotidiana assomiglia a un bollettino di guerra in cui le vittime, lasciate sul campo da crisi internazionale e ritardi della politica, sono i lavoratori e le loro famiglie. Una crisi devastante per un’area da sempre basata su una monocultura industriale: ieri le miniere, oggi le industrie di trasformazione dei metalli non ferrosi.
I numeri e i dati oggettivi fanno temere per il definitivo collasso dell’intero sistema industriale del territorio e niente sembra in grado di fermare questo ciclone. I sindacati dei lavoratori, per tutto il 2009, hanno lanciato il loro grido d’allarme, rimasto pressoché inascoltato. Quando tutti i nodi sono arrivati al pettine e i disoccupati della provincia Carbonia-Iglesias hanno sfondato il muro delle ventimila unità, superando per la prima volta il numero degli occupati, il movimento sindacale ha deciso di alzare i toni della protesta, giocando le ultime carte possibili: scioperi, cortei di protesta in Sardegna e a Roma, assemblee in tutte le otto province sarde, pressione sui governi nazionale e regionale per la soluzione dei problemi storici del maggior polo industriale sardo.

 

Problemi che possono essere così sintetizzati: costo dell’energia, deficit di infrastrutture, mancanza di un progetto di sviluppo economico diversificato. Problemi per i quali, negli innumerevoli protocolli di intesa firmati e mai totalmente portati a compimento, sono state indicate le soluzioni e, a volte, trovati anche i finanziamenti. Vediamo quali: il sistema di produzione di energia impiegando il carbone Sulcis; l’ampliamento del porto industriale di Portovesme e il potenziamento della rete stradale e ferroviaria; la diversificazione in loco delle produzioni che escono dalle fabbriche e prendono subito la via della Penisola, senza fermarsi per ulteriori lavorazioni; l’avvio delle opere di bonifica ambientale nelle aree definite per legge “ad alto rischio”.
Senza questi interventi cardine, il 2009 rischia davvero di essere non l’ultimo anno per le industrie sulcitane, ma il primo del loro definitivo smantellamento. Con tutte le disastrose conseguenze sociali che ne deriverebbero.

Il costo dell’energia

L'amministratore delegato dell'Enel, Fulvio Conti
L'amministratore delegato
dell'Enel, Fulvio Conti

Sono passati oltre quattro anni dall’approvazione, da parte del Parlamento, della legge n. 80/2005 sulle tariffe energetiche agevolate. Quella legge, cioè, che avrebbe dovuto consentire alle industrie sarde del piombo e dello zinco (la Portovesme srl) e dell’alluminio (la Alcoa) di acquistare l’energia elettrica ad un prezzo più basso che nel passato.
Solo nel luglio di quest’anno, finalmente, è arrivata la legge (la n. 99) che ha reso operativa quell’iniziale previsione. Una legge molto complessa, anche se il dispositivo che riguarda la Sardegna è contenuto in poche righe all’interno di un provvedimento più vasto sull’intero sistema energetico nazionale, che prevede in sostanza la creazione di un produttore virtuale di energia che venda la stessa ai grandi utilizzatori sardi.
Perché questa finzione, peraltro concordata con la stessa Unione europea? Per superare il collo di bottiglia rappresentato da un mercato chiuso, con i produttori isolani (Enel ed E.On.) che hanno creato una sorta di duopolio, che la scarsa connessione alla rete nazionale non è riuscita a scalfire. Con l’arrivo di un nuovo venditore di energia, ad un prezzo competitivo derivante dalle logiche di mercato, Alcoa e Portovesme srl avrebbero dovuto trarne qualche beneficio.
Le ragioni di questo tipo di scelta sono facilmente desumibili dai dati numerici. Alcoa consuma il 25 per cento di tutta l’energia elettrica prodotta in Sardegna e il 40 per cento di quella destinata ad uso industriale. L’energia copre il 70 per cento dei costi per la produzione di alluminio primario, è essa stessa materia prima.
Nettamente più basse le cifre della Portovesme srl, ma le due fabbriche – uniche del genere in Italia – consumano insieme più del 50 per cento dell’energia prodotta nell’isola. Ecco perché ogni euro risparmiato sul costo dell’energia è vitale.
Siccome l’obiettivo finale dell’adozione del produttore virtuale, altrimenti detto VPP (Virtual Power Plant) è quello di abbassare i prezzi, le nostre due multinazionali (l’Alcoa è americana, mentre la Portovesme srl è di proprietà svizzera) avrebbero dovuto beneficiare della riduzione delle tariffe.
Il presidente e aministratore delegato di E.ON., Klaus Schäfer
Il presidente e aministratore
del. di E.ON., Klaus Schäfer
Basti pensare che, nella scorsa estate, i costi energetici in Sardegna hanno continuato a lievitare. Dai dati diffusi dal gestore del Mercato elettrico si ricava che nella penisola il costo medio dell’energia per megawattora è diminuito di circa il 40 per cento su base annua, mentre in Sardegna è aumentato del 9,2. Il che significa che nell’isola un megawattora costava 106,60 euro, contro i 60,50 pagati in qualsiasi altra regione italiana.
Alla fine dell’estate, iniziavano a prendere corpo i primi dubbi sulla soluzione VPP. Per tutti, riportiamo la lucida analisi di Giorgio Asuni, segretario regionale della Filcem-Cgil, dopo l’approvazione del provvedimento sul VPP (15 agosto) e la sua entrata in vigore un mese dopo: «Per come è congegnato, il decreto non rappresenta la soluzione dei problemi, ma anzi rischia di aggravarli, perché l’energia potrà essere acquistata tramite gara da grossisti e, paradossalmente, rivenduta a prezzi agevolati anche fuori dalla Sardegna. Così, il grosso dei benefici potrebbero averlo proprio i grossisti oppure gli utilizzatori non energivore».
L’amara verità è emersa nell’incontro romano di metà ottobre tra la delegazione del Sulcis-Iglesiente, guidata dal governatore Cappellacci, e i direttori generali del ministero per lo Sviluppo economico. Nella circostanza, questi ultimi hanno riconosciuto che il VPP era soltanto una norma studiata per rientrare nelle condizioni imposte dall’Unione europea per altri utilizzatori. A consolazione, aggiungevano che il ministro Scajola era impegnato a trovare un’altra via, concordata con l’Ue, per alleggerire il peso della bolletta energetica di Alcoa e Portovesme srl.
All’asta di fine ottobre, come temuto, 12 società elettriche, fra le 600 che avevano formulato richieste di acquisto, si sono accaparrate i 225 megawatt del pacchetto VPP, slegati dalle regole di mercato, messi in vendita dall’Enel. Dodici gruppi della penisola che si troveranno a commercializzare l’enorme quantità di energia elettrica fuori dalla Sardegna e a tutto vantaggio delle imprese di altre regioni.

E così il Sulcis-Iglesiente, che tanto aveva lottato per avere questi vantaggi tariffari, si è trovato con il classico pugno di mosche. «Ci chiediamo a cosa siano servite le nostre battaglie – ha commentato amaro Roberto Puddu, della Cgil – se i benefici sono andati alle industrie della penisola. Una vera beffa, che potremmo pagare anche a caro prezzo. È infatti possibile che l’Enel – che deve mettere in rete i primi 225 megawatt del VPP – non sia più disponibile a mantenere l’accordo bilaterale Regione-Ente elettrico per la concessione di tariffe agevolate».
«Adesso – aggiungeva Mario Crò, della Uil – attendiamo quale proposta alternativa al VPP presenterà il ministro Scajola, che ha manifestato sicurezza nella soluzione del problema delle tariffe elettriche».
Tutti i rappresentanti dei lavoratori attendono le decisioni del Ministro. Ma lanciano un avvertimento: «Se la proposta non sarà soddisfacente, il confronto con le istituzioni regionali e nazionali sarà di inevitabile conflittualità».

L'amministratore delegato di Portovesme srl, Carlo Lolliri
L'amministratore delegato di
Portovesme srl, Carlo Lolliri
Portovesme srl -
Nel grigiore generale, uno squarcio di sereno si è aperto alla fine di novembre con il riavvio degli impianti per la produzione di zinco e piombo della Portovesme srl. Nello stabilimento erano rimaste in funzione solo le celle elettrolitiche, ma i segnali positivi per un ritorno alla normalità erano arrivati già seconda metà di ottobre, a seguito degli accordi raggiunti tra ministero delle Attività produttive, Regione Sardegna, impresa e sindacati dei lavoratori. «L’incontro è stato positivo – ha dichiarato nell’occasione l’assessore regionale alla Programmazione, Giorgio La Spisa – grazie al senso di responsabilità di tutti. Il ministero si è impegnato a valutare diverse ipotesi per la riduzione dei costi energetici, mentre la Regione vaglierà la possibilità di attuazione di progetti per fonti energetiche alternative».
Ma la questione energia non è stata la sola a tenere banco: dall’incontro di Roma sono arrivate risposte positive anche in merito al tanto atteso accordo di programma, che prevede investimenti per 150 milioni di euro, cofinanziati dal Comitato interministeriale per lo sviluppo economico.
Di fronte a questa svolta positiva, l’azienda ha programmato il riavvio degli impianti. A fine novembre, dopo le necessarie manutenzioni, è dunque ripresa la produzione delle due linee Waeltz (zinco), ferme da febbraio a causa della crisi dei mercati internazionali. Per il Kivcet, dove si produce il piombo, i tempi saranno leggermente più lunghi, ma l’azienda ha intanto dato il via libera agli ordini per nuovi macchinari.
Un passo decisivo in avanti è stato assicurato dall’esito positivo del sopralluogo compiuto a Portovesme a fine ottobre dagli ispettori del ministero dello Sviluppo economico. Gli inviati romani hanno controllato minuziosamente l’area piombo, la zona dove dovrà sorgere il nuovo impianto, le linee Waeltz in manutenzione e le celle elettrolitiche in esercizio. Insomma, un’indagine a tappeto per formulare un giudizio puntuale sulla credibilità del progetto di raddoppio degli impianti per ottimizzare il ciclo della lavorazione dello zinco, del piombo e altri metalli.
Dopo il positivo sopralluogo, premessa indispensabile per il via libera del Cipe alla realizzazione del progetto, si è tenuta una decisiva riunione a Roma il 5 novembre scorso, alla presenza del capo di gabinetto del ministro delle Attività produttive, Luigi Mastrobono. Presenti il presidente della Regione, Ugo Cappellacci, l’assessore della Programmazione, Giorgio La Spisa, il presidente del Consiglio regionale, Claudia Lombardo, il deputato Salvatore Cicu, l’amministratore delegato di Portovesme srl, Carlo Lolliri, i sindaci del territorio e i rappresentanti dei vari sindacati di categoria.
Nella circostanza, Lolliri ha confermato gli investimenti per potenziare le produzioni. «Anche se non abbiamo ancora certezze concrete – ha dichiarato – finalmente abbiamo notato che a Roma si vuole tutelare la produzione dello zinco in Italia. L’accordo di programma ci consentirà di investire 150 milioni di euro e di richiamare al lavoro centinaia di operai. Le proposte del ministero per contenere le spese dell’energia elettrica saranno poste al vaglio dei nostri tecnici».
Ma quali sono le proposte? Una riguarda il parco eolico per l’autoproduzione di energia elettrica, per il quale è richiesto un rapido pronunciamento della Regione. La seconda riguarda gli accordi bilaterali con le aziende fornitrici di energia elettrica, la terza l’acquisto di energia elettrica dall’estero, dove il megawattora costa 27 euro (per quest’ultima ipotesi, i potenziali acquirenti dovrebbero realizzare le linee elettriche e assicurarne la manutenzione).
«È dal 2002 che stiamo vanamente facendo proposte per realizzare un impianto per l’autoproduzione di energia elettrica – ha commentato Carlo Lolliri – e garantire la continuità di marcia degli impianti. Stavolta sembra la volta buona». Pare proprio così, posto che, a distanza di pochi giorni, è arrivata la sottoscrizione di un accordo tra la regione, l’Azienda e i comuni di Portoscuso e Gonnesa per l’installazione di un parco eolico.
L’impianto che la casa madre Glencore vorrebbe realizzare (investendo in proprio 150 milioni di euro) è composto da 26 pale eoliche, che copriranno il 27 per cento del fabbisogno energetico della Portovesme srl, con una produzione di circa tre megawatt ciascuna. Con l’accordo sono state superate anche le iniziali resistenze di Pietro Cocco, sindaco di Gonnesa, derivanti dall’individuazione di un’area sottoposta un vincolo archeologico (nella quale era previsto un certo numero di pale). Il Comune interessato ha infatti indicato un sito alternativo.
Positivo il giudizio dei sindacati. «Abbiamo centrato l’obiettivo. Questo tipo di parco – è il commento di Roberto Puddu, della Cgil – necessario per sostenere l’attività produttiva della fabbrica, è l’unico accettabile nel Sulcis, mentre saremo fieri oppositori di quelli che hanno il business come ragione unica. Ora aspettiamo che Portovesme srl faccia gli investimenti promessi».

L'amministratore delegato dell'Alcoa Trasformazioni srl
L'amministratore delegato
dell'Alcoa Trasformazioni srl,
Giuseppe Toia
Alcoa -
La data è quella del 31 dicembre. Oltre, lo spettro della chiusura. Mentre scorrono i giorni e si accavallano le notizie, spesso contrastanti, sul futuro dello stabilimento di Portovesme, l'attesa si carica di tensione.
I lavoratori della fabbrica di Portovesme (ma non solo loro), ben consapevoli del pericolo, hanno avviato una serie di rabbiose – pur sempre civilissime – manifestazioni di protesta: si sono barricati in tre su una cisterna dello stabilimento a 60 metri di altezza, hanno invaso le banchine del porto di Cagliari e ritardato l’attracco dei traghetti, hanno interrotto la circolazione sulla SS 130 con un blocco stradale e hanno occupato le piste dell’aeroporto di Elmas, impedendo il movimento degli aeromobili. Per non contare i cortei romani, l’ultimo dei quali (il 25 novembre) ha visto sfilare amministratori pubblici del Sulcis-Iglesiente e centinaia di lavoratori sotto i palazzi della politica, con momenti di forte tensione. In Sardegna, è arrivato il sostegno della Chiesa e delle popolazioni interessate, sono fioccate le interrogazioni in Consiglio regionale e, addirittura, c’è chi  ha  proposto le dimissioni in massa di sindaci e consigli comunali del Sulcis.
«Questa crisi – ha dichiarato il presidente della Provincia, Pierfranco Gaviano – rischia di ingenerare la più devastante deriva sociale degli ultimi 40 anni».
Due le questioni da risolvere prima della fine dell’anno. La prima, legata alla procedura di infrazione aperta nel 2006 dall’Unione europea per aiuti di Stato a proposito del regime tariffario speciale che ha consentito all’Alcoa di acquistare l’energia elettrica a prezzi scontati, ma in linea con la media europea. Se la Commissione avesse giudicato il provvedimento illegittimo, l’Alcoa avrebbe dovuto sborsare circa 420 milioni di euro. Al termine dell’incontro tenutosi a Roma il 18 novembre, negli uffici ministeriali, tra Regione, Sindacati e rappresentanti dell’Azienda, guidati dal presidente Cappellacci, il ministro Scajola ha annunciato: «Alcoa non chiuderà».
Sono stati gli stessi vertici aziendali a confermarlo, dopo l’anticipazione (informale) della decisione di Bruxelles: la Commissione sembrerebbe orientata a chiedere il pagamento di “solo” 270 milioni di euro. L’Autorità per l’energia potrà quindi mettere all’incasso la somma, destinata in parte ad Enel e in parte al Tesoro. Resta tuttavia aperta la strada del ricorso all’Alta Corte di Giustizia del Lussemburgo, per chiedere di annullare la decisione dei Commissari europei. Solo alla fine del procedimento, che dovrebbe durare almeno un anno, Alcoa potrebbe essere veramente costretta a pagare. Per allora, gli accordi col Governo, se saranno mantenuti, dovrebbero mitigare gli effetti sulle casse del colosso statunitense.
Accordi che riguardano la seconda questione, cioè quella dei provvedimenti che dovrebbero consentire ad Alcoa di acquistare l’energia elettrica a prezzi concorrenziali. Perché, impossibile ignorarlo, produrre pagando l’energia a prezzo pieno significa  perdere circa 8 milioni di euro al mese. Come detto sopra, la data di scadenza del regime tariffario di favore, inizialmente fissata al 17 novembre, è stata spostata a fine anno. Non resta che attendere i provvedimenti che il Governo starebbe perfezionando in alternativa al buco nell’acqua del VPP: accordi bilaterali con l’Enel,  diversa tipologia di energia acquistata (quella “interrompibile”) e acquisti di energia all’estero.
Taglio di placche d'alluminio presso lo stabilimento di Portovesme dell'Alcoa Trasformazioni srl
Taglio di placche d'alluminio presso lo stabilimento
di Portovesme dell'Alcoa Trasformazioni srl
All’ultimo momento, e in modo del tutto inaspettato, Alcoa ha rotto gli indugi e ha annunciato la fermata temporanea della produzione nelle sue due fonderie di Fusina e Portovesme. In un  comunicato diffuso nella mattina del 20 novembre la multinazionale ha spiegato che «la sospensione è stata decisa a causa delle incertezze sulla fornitura di elettricità per i suoi forni di fusione a tariffe competitive e per l’impatto finanziario della decisione della Commissione europea».
Immediata la reazione dei lavoratori, che hanno creato un presidio permanente e annunciato clamorose azioni di lotta. Ma la situazione è ormai precipitata: il 25 novembre si è diffusa la notizia che l’Alcoa avrebbe deciso di non attendere oltre, avviando le procedure di cassa integrazione per tutti i dipendenti a zero ore. La cigs dovrebbe durare un anno, ma forse anche di più. Un vero e proprio colpo mortale per i 1110 occupati diretti e indiretti.
La brusca accelerata dell’Alcoa può essere spiegata con la volontà di alzare la posta in vista delle decisioni romane,  ma pare difficile ipotizzare che sia sufficiente la certezza di una fornitura pluriennale di energia a un prezzo competitivo. Sul piatto della bilancia, ormai, ci sono anche altri elementi: il miglioramento dell’efficienza e della riduzione dei costi operativi degli smelter (fonditori), la ripresa dell’economia mondiale, con relativo incremento dei consumi, e il rialzo dei valori di borsa.

Eurallumina - Nella mappa della disperazione sulcitana spicca la situazione dell’Eurallumina della Rusal: la fabbrica è ferma dal 1° aprile, con 590 operai (tra dipendenti diretti e indiretti) in cassa integrazione.
Le ragioni della fermata, che per un processo a cascata ha messo in difficoltà tutto l’apparato industriale del territorio, sono essenzialmente due: il calo del mercato dell’alluminio, connesso al crollo delle produzioni dell’industria dell’auto e aeronautica, e la crisi finanziaria delle Rusal, che deve 17 miliardi di dollari ai suoi creditori. A fronte di queste due emergenze, la scelta dei russi di chiudere è stata quasi automatica.
Purtroppo per la Sardegna, Rusal ha chiuso solo gli stabilimenti sardo e giamaicano, lasciando funzionanti (sia pure al minimo) gli impianti dell’Irlanda e della madrepatria. Le ragioni della scelta, per quanto ci riguarda, risiedono nel fatto che Eurallumina ha elevati costi di produzione e sta per esaurire il grande bacino dove vengono conferiti gli scarti di lavorazione, i cosiddetti fanghi rossi. Se a questi elementi aggiungiamo un costo per la produzione del vapore più alto che nel resto d’Europa, si capisce perché lo stabilimento di Portovesme sia stato il primo a entrare nella lista dei “cattivi”.
Ed è proprio sugli interventi per rimuovere le cause strutturali che hanno determinato la fermata degli impianti, che i Governi nazionale e regionale si sono mossi, per presentare a sindacati e proprietà un pacchetto di iniziative che potessero riportare Eurallumina in attività nel giro di un anno. La strada maestra è stata tracciata con le firme apposte su un protocollo d’intesa, alla fine di marzo, a Roma, da Governo, Rusal, sindacati e Regione.
Un protocollo con molte indicazioni per rilanciare il sito di Portovesme: un nuovo bacino in cui depositare gli scarti di lavorazione, energia agevolata per Eurallumina, un deposito di olio combustibile e un impianto di cogenerazione a vapore, modifiche agli impianti per poter utilizzare la bauxite di cui Rusal è proprietaria. Inoltre, Rusal si è accollata l’onere di anticipare ai 350 dipendenti dello stabilimento l’assegno di cassa integrazione, aggiungendo un assegno medio di 600 euro mensili, per far raggiungere alla busta paga virtuale il valore dell’80 per cento dello stipendio conseguito prima della fermata degli impianti. Per i lavoratori diretti era anche prevista una formazione continua in stabilimento, per non perdere la professionalità acquisita. In cambio, all’azienda veniva garantito il pagamento del credito Iva di 30 milioni di euro, da utilizzare solo per mantenere in sicurezza la fabbrica e per liquidare le fatture dei fornitori.
All’inizio di novembre, l’amara constatazione: non esistono le condizioni per un riavvio degli impianti. L’annuncio è stato dato alle organizzazioni sindacali e ai lavoratori durante un incontro con l’azienda (era presente anche un rappresentante della Rusal, giunto appositamente da Mosca) e gli assessori regionali Giorgio La Spisa e Andreina Farris. «I punti sottoscritti nell’accordo di marzo non si sono concretizzati – ha detto il portavoce dell’azienda – e anche le condizioni di mercato non sono al momento ottimali. Per questo, è probabile che alla scadenza di marzo 2010 chiederemo una proroga della cassa integrazione».
La Rusal, comunque, ha ribadito di non voler rinunciare allo stabilimento di Portovesme, che ritiene strategico, e ha prospettato anche l’ipotesi di diversificare le produzioni, puntando sull’idrato di alluminio e sull’allumina speciale. L’idrato veniva prodotto già prima della crisi, e si tratterebbe di incrementare la produzione in un mercato in cui l’Eurallumina è già presente; l’allumina speciale sarebbe invece una produzione nuova di zecca per Portovesme, per cui l’azienda sta compiendo uno studio di mercato.
Diverse le questioni ancora da risolvere. Tra i punti più controversi, l’individuazione di un nuovo sito per il bacino dei fanghi rossi, per il quale esistono due possibilità. La pineta di San Giovanni Suergiu (ma il Consiglio comunale ha già detto di no) e l’ampliamento verso il mare dell’attuale bacino di Sa Foxi, a Portoscuso. Sul deposito degli scarti di lavorazione pesa anche l’incognita del sequestro giudiziario, disposto circa due mesi fa dalla magistratura, che sta indagando sull’ipotesi di disastro ambientale.
Ma il futuro della raffineria di allumina è legato anche ad altre questioni: l’azienda aspetta risposte sulla centrale a gas, sui rimborsi Iva, le accise e il deposito per l’olio combustibile, che vorrebbe realizzare a Portovesme. Non dimostra più interesse, invece, alla modifica ai frantoi per utilizzare la bauxite dei propri giacimenti, il cui costo si è assestato ai livelli di quella australiana.
Intanto, crescono il malessere e i disagi dei lavoratori, per i quali si profila un altro anno di cassa integrazione.

Rockwool - La fabbrica, situata nell’area industriale di Iglesias, in località Sa Stoia, nata grazie alla legge 221 sulla riconversione mineraria, è chiusa ed è ormai fuori dal sistema produttivo. Dall’impianto a gestione danese (considerato il migliore dell’area del Mediterraneo) uscivano ogni anno 120 mila tonnellate di prodotti in lana di roccia, quasi interamente destinati al mercato dell’edilizia.
Il mercato esiste tuttora e, anzi, si sta incrementando, ma l’azionista ha voluto disfarsi delle produzioni sarde per “delocalizzare”, cioè costruire in Croazia una fabbrica con maggiori capacità produttive e costi molto inferiori. Ad oggi, i 94 lavoratori sono in cassa integrazione, in attesa della decisione definitiva dell’azienda, che però sembra abbastanza scontata.
Rockwool ha infatti manifestato all’Amministrazione regionale e alle organizzazioni sindacali la propria disponibilità a cedere l’area dove insiste la fabbrica, capannone industriale compreso. Ma non è affatto intenzionata a vendere le macchine e la tecnologia d’avanguardia, utilizzata per trasformare i basalti in materiali isolanti.
I lavoratori sono costantemente in presidio davanti all’ingresso dello stabilimento, nell’estremo tentativo di impedire all’azienda di effettuare il trasloco di quanto è necessario per ricostruire, in altra zona del vecchio continente, un analogo impianto produttivo. I sindacati attendono l’incontro del prossimo dicembre, nel corso del quale la Regione vaglierà le ultime proposte della multinazionale e, probabilmente, renderà noto il nome del gruppo interessato ad acquistare la fabbrica di Sa Stoia.

Otefal Sail - Forse la pagina più incerta e rocambolesca del versante industriale del Sulcis-Iglesiente. Erede della ex Comsal e della ex Ila, a regime produceva 25 mila tonnellate annue di laminati d’alluminio fino all’agosto 2008, quando i forni furono spenti per la consueta pausa estiva. Da allora, la produzione non è più ripartita e i 200 dipendenti sono rimasti senza lavoro e successivamente collocati in cassa integrazione guadagni.
Dal 25 giugno 2009 la fabbrica è sotto il totale controllo dei curatori fallimentari. Si sono succedute diverse voci su imprenditori disposti a rilevare lo stabilimento, ma il fatto che per l’acquisizione occorrano circa 13 milioni di euro ha sinora scoraggiato gli eventuali interessati. Si profila così lo spettro della totale liquidazione.