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Inceneritori: termovalorizzatori o termoinquinatori?

Una proposta europea per ridurre l'inquinamento

Indice per autore "Sardegna industriale" 1980-2006 (prima parte - lettere A-M)

Indice per autore "Sardegna industriale" 1980-2006 (seconda parte - lettere M-Z)

 

Inceneritori: termovalorizzatori o termoinquinatori?

 

Gli
Gli imballaggi costituiscono
oggi circa il 40% dei rifiuti
solidi urbani
Secondo l’ultimo Rapporto rifiuti 2006 dell’Apat, nell’Unione europea ogni anno si producono circa 1,3 miliardi di tonnellate di rifiuti, di cui circa 58,4 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi. Nel computo totale non sono compresi i rifiuti prodotti da agricoltura, caccia e silvicoltura, industria estrattiva, pesca e settore dei servizi, difficilmente quantificabili.
Il 15 per cento circa dei rifiuti complessivamente prodotti sul territorio europeo è costituito dai rifiuti urbani, il cui quantitativo è pari quindi a 195 milioni di tonnellate. Considerando la popolazione Ue di 375 milioni di abitanti, ogni abitante in Europa produce ogni anno 537 kg di rifiuti. Rifiuti da smaltire in qualche modo.
Nonostante gli sforzi nel recupero e nel riciclaggio, in Europa la discarica resta ancora la soluzione più praticata per il 54% dei casi. Il 27% dei rifiuti urbani entra nella filiera del riciclaggio o del compostaggio. Il 19% restante dei rifiuti è avviato all’incenerimento con o senza recupero di energia.
L’Italia, sempre secondo l’ultimo Rapporto rifiuti 2006 dell’Apat, nel 2005 ha prodotto 31,7 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani, con un incremento di ben 1,6 milioni di tonnellate rispetto al 2003 (+5,5%), ed un pro capite di circa 539 kg/abitante per anno (6 kg/abitante per anno in più rispetto al 2004 e 15 kg/abitante per anno in più rispetto al 2003).
Lo smaltimento in discarica, pur mostrando una lieve riduzione, pari al 3%, si è confermato, anche nel 2005, la forma di gestione più utilizzata, con oltre 17 milioni di tonnellate di rifiuti (53,6%). Va comunque registrata la progressiva diminuzione del numero di discariche (61 in meno rispetto al 2004), soprattutto nel Sud del Paese, dove maggiore era la loro concentrazione ed inadeguatezza rispetto agli standard fissati dalla direttiva europea in materia.
Per quanto riguarda i rifiuti speciali, in Italia, come in molti altri Paesi dell’Unione europea, tra il 1999 e il 2004 si è registrato un forte aumento di produzione a causa delle migliori condizioni economiche e dello sviluppo industriale. In particolare, questo tipo di rifiuti nel nostro Paese ha superato nel 2004 i 108 milioni di tonnellate, di cui circa 57 milioni di tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi, 5,3 milioni di rifiuti speciali pericolosi, ed oltre 46 milioni di rifiuti da costruzione e demolizione.
La forma prevalente di gestione è rappresentata dalle operazioni di recupero di materiale (47%). Tra le operazioni di smaltimento la più diffusa rimane ancora la discarica (circa il 21% del totale gestito, pari a quasi 20 milioni di tonnellate).
Questo, in estrema sintesi, il contenuto del “Rapporto rifiuti 2006” in cui l’Apat evidenzia un’Italia “a doppia velocità”: un Nord che avanza e continua a migliorare ed un Sud che, travolto dall’emergenza, si ferma ed in alcuni casi addirittura regredisce. 

Incenerimento e termovalorizzazione 

Impianto smaltimento fanghi dell'inceneritore di Cagliari
Impianto smaltimento fanghi dell'inceneritore
di Cagliari
I quantitativi di rifiuti urbani e cdr (combustibili derivati dai rifiuti) avviati all’incenerimento in Italia sono progressivamente aumentati nel­l’ul­timo decennio 1996-2005 passando da 1,6 milioni di tonnellate nel 1996 ad oltre 3,8 milioni di tonnellate nel 2005 con un aumento, rispetto al 2004, pari all’8,7 per cento. Rispetto alla produzione di rifiuti urbani la percentuale di trattamento nell’inceneritore si attesta quindi nel 2005 intorno al 12,1% contro l’11,4% del 2004.
A livello regionale, con i suoi due impianti di incenerimento, uno a Macomer e l’altro nell’area industriale di Cagliari, la Sardegna nel 2005 ha trattato complessivamente 188.098 tonnellate di rifiuti urbani, il 21,5%, cioè, della produzione complessiva regionale di 875.206 tonnellate di rifiuti urbani.
È un dato importante, che colloca la Sardegna nella graduatoria regionale subito dopo la Lombardia (36%), il Friuli-Venezia Giulia (23,5%) e l’Emilia Romagna (23%). Ma la quantità di rifiuti avviati all’incenerimento potrebbe aumentare sensibilmente nei prossimi anni con il nuovo impianto di Ottana che dovrebbe sostituire quello ormai obsoleto di Macomer.
Tutto bene quindi per l’isola che con l’aumento dei rifiuti urbani trattati in impianti di incenerimento vede diminuire quelli avviati in discarica?
Non è proprio così. Alla luce di quanto successo in altre parti d’Italia, ed in particolare in Toscana, in Emilia Romagna ed in Campania, dove c’è stata una vera e propria levata di scudi da parte delle popolazioni contro la costruzione di altri inceneritori, anche in Sardegna, se pure in misura meno eclatante, sta prendendo piede un movimento contrario alla realizzazione di questo tipo di impianti e si fa sempre più forte la convinzione che è soltanto la raccolta differenziata la vera soluzione del problema rifiuti.
Ma vediamo brevemente come è nata la contestazione contro l’inceneritore. 

La lotta agli inceneritori 

Marco Cattini, ordinario di Storia economica all'Università Bocconi di Milano
Marco Cattini, ordinario di
Storia economica alla Bocconi
di Milano
«Li chiamano termovalorizzatori ma sarebbe più corretto dire termoinquinatori». A lanciare questa accusa non è uno stato uno scienziato, ma stranamente un umanista, uno storico, Marco Cattini, ordinario di Storia economica all’Università Bocconi di Milano, che ha sviluppato nel corso dei suoi studi una spiccata sensibilità ambientale che lo ha portato in prima linea nella battaglia per fermare il raddoppio dell’inceneritore di Modena e a farne il portavoce del Comitato “Modena salute e ambiente”.
I termovalorizzatori, sostiene Cattini, «vengono accettati perché si cade in due trappole percettive. La prima è quella dell’invisibilità dell’inquinamento. I fumi emessi da questi impianti a più di 1.000 gradi di temperatura vengono sparati nell’atmosfera a 1.500-2.000 metri d’altezza. Le sostanze inquinanti, comprese polveri così sottili da non essere trattenute né dai filtri degli impianti, né dai filtri naturali che proteggono i nostri polmoni, ricadono ad ombrello entro un’area del raggio di molti chilometri. Paradossalmente, chi vive nei pressi degli impianti è come nell’occhio del ciclone e la sua salute corre meno rischi di chi abita o lavora entro una vastissima area circostante».
La seconda trappola – spiega ancora Cattini – è più sottile: «si pensa che, con un inceneritore che crea energia bruciando rifiuti, si possa trarre ricchezza da sostanze che altrimenti andrebbero occultate nelle discariche. E invece il vantaggio è apparente, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche economico. Dal punto di vista ambientale – sostiene Cattini – dopo l’incenerimento rimane da smaltire un volume di ceneri iperinquinanti che, trattate per solidificarle, rappresenta comunque il 30% dei rifiuti bruciati, mentre gli impianti utilizzano e surriscaldano grandi quantità di acqua, che viene poi reimmessa nelle falde. Dal punto di vista economico, la produzione di energia dai rifiuti è conveniente solo in ragione delle sovvenzioni pubbliche. Senza di esse sarebbe più costosa di quella tradizionale».
Dal semplice compattamento meccanico all’utilizzo di microrganismi che degradano i rifiuti umidi, le soluzioni alternative, secondo Cattini, non mancano, come dimostrano esempi virtuosi in giro per il mondo. E tutti partono da una capillare raccolta differenziata, che può sottrarre allo smaltimento anche l’80% del materiale di scarto, come accade in Svezia. «Nel sistema californiano – afferma Cattini – i cittadini riescono addirittura a farsi pagare dalle imprese di riciclaggio per quanto riescono a differenziare. E si badi che Stati Uniti e Giappone, in passato le nazioni più entusiaste degli inceneritori, non ne costruiscono più da anni e stanno demolendo i più vecchi».

Stefano Montanari, direttore scientifico del Laboratorio Nanodiagnostic di Modena
Stefano Montanari, direttore
scientifico del Laboratorio
Nanodiagnostic di Modena
Sulla stessa lunghezza d’onda di Cattini è sintonizzato un altro “nemico” dei termovalorizzatori, Stefano Montanari(1), direttore scientifico del laboratorio Nanodiagnostic di Modena: «Ormai, non esiste più alcun dubbio a livello scientifico: le micro e nanoparticelle, comunque prodotte, una volta che siano riuscite a penetrare nell’organismo innescano tutta una serie di reazioni che possono tramutarsi in malattie. Le nanopatologie, appunto. L’uso dei termovalorizzatori per lo smaltimento dei rifiuti non ridurrà il problema, lo aggraverà».
«Se è vero che le manifestazioni patologiche più comuni sono forme tumorali, è altrettanto vero – sottolinea il ricercatore – che malformazioni fetali, malattie infiammatorie, allergiche e perfino neurologiche sono tutt’altro che rare. A prova di questo, basta osservare ciò che accade ai reduci, – militari o civili che siano – delle guerre del Golfo o dei Balcani o a chi sia scampato al crollo delle Torri Gemelle di New York e di quel crollo ha inalato le polveri. “Comunque prodotte”, ho scritto sopra a proposito di queste particelle che sono inorganiche, non biodegradabili e non biocompatibili. E l’ultimo aggettivo è sinonimo di patogenico. Il fatto, poi, che siano anche non biodegradabili, vale a dire che l’organismo non possieda meccanismi per trasformarle in qualcosa di eliminabile, rende l’innesco per la malattia “eterno”, dove l’aggettivo “eterno” va inteso secondo la durata della vita umana».
«Le particelle di cui si è detto – spiega ancora il ricercatore – hanno dimensioni piccolissime, da qualche centesimo di millimetro fino a pochi milionesimi di millimetro, e più queste sono piccole, più la loro capacità di penetrare intimamente nei tessuti è spiccata; tanto spiccata da riuscire perfino, in alcune circostanze e al di sotto di dimensioni inferiori al micron (un millesimo di millimetro), a penetrare nel nucleo delle cellule senza ledere la membrana che le avvolge».
«Se noi bruciamo l’immondizia – chiarisce Montanari –, altro non facciamo se non trasformarla in particelle tanto piccole da farle scomparire alla vista e, con i cosiddetti “termovalorizzatori” – una parola che esiste solo in italiano e che evoca l’idea ingenuamente falsa che si ricavi valore economico dall’operazione – la trasformazione produce particelle ancora più minute e, dunque, più tossiche. Malauguratamente, non esiste alcun tipo di filtro industriale capace di bloccare il particolato da 2,5 micron o inferiore a questo, ma, dal punto di vista dei calcoli che si fanno in base alle leggi vigenti, questo ha ben poca importanza: il “termovalorizzatore” pro­duce pochissimo PM10 e la quantità enorme di altro particolato non rientra nelle valutazioni. Ragion per cui, a norma di legge, l’aria è pulita».
Ma i danni del termovalorizzatore non finiscono qui. Spiega ancora Montanari che «nel processo d’incenerimento occorre aggiungere all’immondizia calce viva e una rilevante quantità d’acqua. Da una tonnellata di rifiuti bruciata escono una tonnellata di fumi, da 280 a 300 kg di ceneri solide, 30 kg di ceneri volanti (la cui tossicità è enorme), 650 kg di acqua sporca (da depurare) e 25 kg di gesso. Il che significa il doppio di quanto si è inteso “smaltire”, con l’aggravante di avere trasformato il tutto in un prodotto altamente patogenico».
Conferimento rifiuti urbani all'inceneritore di Cagliari
Conferimento di rifiuti urbani all'inceneritore di
Cagliari
Per non parlare poi – aggiunge Montanari – di tutto il resto: dalle diossine (ridotte in quantità ma non eliminate dall’alta temperatura), ai furani, agli idrocarburi policiclici, agli acidi inorganici (cloridrico, fluoridrico, solforico, ecc.), all’ossido di carbonio e quant’altro. «Affermare, poi, che incenerire i rifiuti significa non ricorrere più alle discariche è un ulteriore falso, dato che le ceneri vanno “smaltite” per legge (decreto Ronchi) in discariche per rifiuti tossici speciali di tipo B1. Si mediti, poi – sottolinea ancora Montanari –, anche sul fatto che l’incenerimento comporta il mancato riciclaggio di materiali come plastiche, carta e legno. I “termovalorizzatori” devono funzionare ad alta temperatura e, per questo, hanno bisogno di quei materiali che possiedono un’alta capacità calorifica, vale a dire proprio le plastiche, la carta e il legno che potrebbero e dovrebbero essere oggetto di tutt’altro che difficile riciclaggio».
«Tralascio qui del tutto il problema economico – conclude Montanari – perché non rientra nell’argomento specifico, ma il bilancio energetico è fallimentare e, se non ci fossero le tasse dei cittadini a sostenere questa forma di trattamento dei rifiuti, a nessuno verrebbe mai l’idea di costruire impianti così irrazionali».

Un altro strenuo avversario dei termovalorizzatori è uno studioso di fama internazionale, Paul Connet, docente di Chimica generale, Chimica ambientale e Tossicologia presso la St. Lawrence University di New York, dove si è occupato soprattutto della pericolosità dei sistemi di smaltimento dei rifiuti tramite incenerimento. Suo uno slogan che ha fatto il giro del mondo: «Il Diavolo brucia, Dio ricicla». Negli ultimi anni si è fatto anche promotore della strategia “Rifiuti Zero” che mira alla costruzione di una società “libera dai rifiuti” grazie ad un impegno fondato su criteri di sostenibilità da parte dei cittadini responsabili ed una corretta gestione della produzione industriale.
Una bobina di carta riciclata nella Cartiera Papiro sarda nell'area industriale di Cagliari
Una bobina di carta riciclata nella Cartiera Papiro
sarda nell'area industriale di Cagliari
Invitato recentemente a Firenze per un convegno sul problema rifiuti, Connen ha detto: «Questa splendida città sta pensando ad una delle più brutte idee: l’inceneritore. È un’idea vecchia, l’idea nuova è “Rifiuti Zero”. L’attuazione di questo programma, che comporta un approccio rivoluzionario alla gestione dei rifiuti, consente di smaltire ogni tipo di residuo o quasi, riciclandolo ed eliminandolo senza alcun impatto ambientale.La prima cosa da fare è quella di separare la frazione organica, che, se bruciata insieme al resto dei rifiuti, da parte innocua come sarebbe si trasforma in un pericolo per l’ambiente, perché nella combustione sprigiona un gas che causa l’effetto serra».
Il professore americano non ha peli sulla lingua: «Le scuse che si utilizzano nelle città dove non si vuole adottare “Rifiuti Zero” sono sempre le stesse: “Non è un’ipotesi realistica, non c’è tempo a sufficienza o non è un progetto adatto alle esigenze di questa città!”».
Connet è entrato senza timori nei dettagli del programma, con il piglio di chi sa che ciò che dice è supportato da basi solide. Nelle città dove è stata applicata – l’esempio più noto è San Francisco – la strategia “Rifiuti Zero” ha prodotto in pochi anni una riduzione dei rifiuti fino al 60-70%: un risultato ottimo, che rende assolutamente verosimile l’obiettivo della “scomparsa” dei rifiuti nei 20 anni stabiliti. Il programma è rivoluzionario perché prevede la creazione di un nuovo tipo di civiltà urbana, impostata per produrre la minor quantità possibile di rifiuti. Chiaramente, in quest’ottica, afferma Connet, «le responsabilità non possono essere riversate completamente sui cittadini, che sono un attore importante, ma soltanto anello finale di una catena nella quale l’amministrazione deve stabilire le regole e l’industria dare un apporto basilare».
Secondo lo studioso americano la soluzione termovalorizzazione per lo smaltimento dei rifiuti è inefficace, inquinante e insalubre: «Da tre tonnellate di rifiuti bruciati se ne ottiene una di ceneri; le ceneri sono pesanti e volatili, tornano sulla terra ed entrano in contatto con le piante, con gli animali e con l’uomo, e il nostro fegato non è in grado di eliminare la diossina che contengono».
«In Germania – aggiunge Connet – queste scorie vengono chiuse in sacchi di nylon e sotterrate; in Olanda vanno a finire nell’asfalto. In Italia non si sa».
Per quanto riguarda in particolare l’attività degli impianti, Connet osserva che il monitoraggio degli inceneritori avviene tre volte l’anno, e non è mai stato effettuato alcuno studio sulle persone che vivono vicino agli impianti. «La tecnologia che usiamo è vecchia e obsoleta, eppure gli inceneritori vengono presentati da politici e imprenditori come unica e avveniristica soluzione al problema dei rifiuti. È un problema di cultura industriale, che in Italia è antiquata e conservatrice».
«L’intero sistema – conclude Paul Connet – va ripensato e riorganizzato secondo nuove basi, in primo luogo attraverso la divisione dei materiali fatta direttamente a casa (fondamentale per il recupero dell’organico) e la raccolta porta a porta. L’ottimizzazione può portare a una diminuzione dei costi tale da rendere conveniente la raccolta differenziata rispetto a quella di vecchio tipo. Gli esempi ci sono, in Italia e fuori. L’obiezione che più spesso viene mossa è quella che sono sempre realtà piccole, paesi o cittadine, e che il modello del porta a porta non è applicabile a situazioni urbane più complesse e impegnative. Che dire allora di San Francisco, quasi un milione di abitanti, che nel 2004 ha riciclato il 66 per cento dei rifiuti prodotti e che conta di arrivare al cento per cento entro il 2020? O di Camberra che invece questo obiettivo vuole raggiungerlo entro il 2010?».
«Per fare questo – conclude Connet – è innegabile che occorrano dei governanti capaci e lungimiranti, e una strategia concertata a livello mondiale. Cina e India hanno iniziato a costruire i loro inceneritori; il problema non è più rimandabile».  

I sostenitori del termovalorizzatore 

Queste, anche per l’alta professionalità e la conseguente grande notorietà dei personaggi, le più importanti voci, a livello nazionale e mondiale, contrarie all’utilizzo dei termovalorizzatori.
Ma accanto agli altrettanto accesi sostenitori degl’impianti di incenerimento, non mancano i sostenitori più moderati di queste strutture, che non escludono a priori il loro utilizzo in futuro, a particolari condizioni, relative soprattutto al rispetto di più severe norme di tutela sanitaria e dell’ambiente.
Scarico rifiuti urbani nella fossa dell'inceneritore di Cagliari
Scarico rifiuti urbani nella fossa dell'inceneritore di Cagliari
Il primo esempio ci viene dalla Lombardia – la regione in cui, secondo i dati Apat-Onr, è maggiore la presenza di termovalorizzatori – che si è dotata di un Piano regionale per la gestione dei rifiuti dove è posto in evidenza il ruolo dei termovalorizzatori di ultima generazione, non solo nel perseguimento degli obiettivi del protocollo di Kyoto, ma, più in generale, degli obiettivi di sostenibilità e compatibilità ambientale.
Anche fra le Associazioni ambientalistiche non mancano le voci favorevoli all’uso degli inceneritori, ma i paletti posti per una loro corretta utilizzazione sono tanti. In un recente articolo (“Inceneritori per rifiuti solidi urbani: impianti indispensabili o evitabili?”), Giorgio Diaferia, del Consiglio nazionale Vas (Associazione Verdi Ambiente e Società) sostiene che le condizioni indispensabili per l’utilizzazione di un inceneritore sono non soltanto l’alta tecnologia degli impianti, ma anche la preselezione del rifiuto ed un campionamento costante delle sostanze emesse da parte di un ente terzo pubblico di documentata esperienza nel settore ed in grado anche di prevedere l’intervento di messa in sicurezza dell’impianto in caso di incidenti.
Altra condizione, secondo l’esponente di Vas, deve essere quella di non costruire un impianto in zone agricole «poiché le tanto temute diossine, che sono uno dei prodotti più tossici e cancerogeni che si potrebbero sviluppare nel corso di un processo di incenerimento, vengono normalmente assunte con l’alimentazione vegetale o anche da carni di animali contaminati piuttosto che inalate».
Cassonetti per la raccolta differenziata in una strada di Cagliari
Cassonetti per la raccolta differenziata in una
strada di Cagliari
Premesso che «certamente una discarica inquina assai di più ed in modo assai meno controllabile rispetto ad un moderno impianto di incenerimento, gestito correttamente da una società a controllo pubblico e che abbia la tutela della salute e dell’ambiente come suo principale obiettivo», Diaferia conclude il suo articolo sostenendo che «la soluzione dell’incenerimento dei rifiuti solidi urbani ed assimilabili sia praticabile con un presupposto fondamentale: che prima si sia stabilmente raggiunta una percentuale non modificabile di raccolta differenziata non inferiore al 50-60 per cento».
Il tasto delle garanzie di tutela sanitaria viene battuto anche dagli enti locali della Toscana favorevoli alla realizzazione del nuovo termovalorizzatore previsto nel Piano regionale di smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
I criteri ispiratori del Piano impongono la riduzione dei rifiuti, lo sviluppo di raccolte differenziate, la promozione del riutilizzo dei materiali recuperati, e infine, per la parte di scarti non recuperabili dal ciclo produttivo (stimati intorno al 40%), la distruzione per incenerimento e il recupero in forma di energia. Ma, soprattutto, il documento prevede che il nuovo termovalorizzatore debba «garantire il rispetto delle più severe normative europee in materia di emissioni in atmosfera».
I promotori del Piano di smaltimento non negano la futura presenza nella combustione di microinquinanti dannosi come le diossine, ma ricordano come la corretta gestione del termovalorizzatore permetta l’abbattimento di queste emissioni tossiche, garantendo il rispetto dei limiti estremamente restrittivi imposti dalla legge italiana, la più severa in assoluto assieme a quella svedese. 

La situazione in Sardegna 

Come abbiamo detto, nell’isola sono operativi due impianti di incenerimento rifiuti, uno a Macomer, ormai obsoleto, e, comunque, del tutto insufficiente a far fronte alle necessità del centro Sardegna; l’altro, nell’area industriale di Cagliari, in fase di completamento con la realizzazione del terzo forno.
Le due strutture attualmente in attività consentono comunque il trattamento complessivo di oltre 188 mila tonnellate di rifiuti urbani che rappresentano il 21,5% della produzione complessiva regionale.
L’impianto di Macomer sembra aver ormai i giorni contati e dovrebbe essere presto sostituito da un moderno inceneritore nella zona industriale di Ottana.
Una deliberazione della Giunta regionale (la n. 6/5 del 14 febbraio 2006) prevede infatti la realizzazione di un termovalorizzatore nell’area industriale di Ottana, per una potenzialità di trattamento di 200 mila tonnellate/anno di secco residuo non riciclabile e una potenza elettrica pari almeno a 20Mwe.
Un depliant di promozione della raccolta diffrenziata diffuso in 70 mila copie dal Comune di Cagliari
Promozione della raccolta
differenziata a Cagliari
Manca però nel documento – in cui incomprensibilmente non è stato coinvolto l’assessore regionale della Sanità –, qualsiasi accenno alla garanzie che l’impianto dovrebbe assicurare per quanto riguarda le emissioni e la conseguente tutela della salute delle popolazioni che abitano nel territorio circostante. Una carenza del tutto ingiustificabile se si pensa che con il terzo forno nell’impianto di Cagliari e con la nuova struttura di Ottana, la Sardegna potrebbe avviare agli inceneritori circa il 30 per cento della sua produzione complessiva di rifiuti, collocandosi nella classifica per regioni subito dopo la Lombardia.
Non si trova alcun accenno alla tutela ambientale e sanitaria che il nuovo termovalorizzatore di Ottana dovrebbe assicurare alle popolazioni del territorio neppure nelle parole che il presidente della Regione, Renato Soru, ha rivolto nel corso dell’incontro del 6 dicembre scorso agli amministratori provinciali, ai sindaci e alle organizzazioni sindacali del nuorese. Dalla lettura del testo integrale del discorso del Presidente (disponibile sul sito Internet della Regione), si trovano solo pochi e generici accenni alla realizzazione del nuovo impianto e, più in generale, al problema smaltimento rifiuti («..Abbiamo individualizzato a Ottana il termovalorizzatore... Dobbiamo avere una qualità ambientale migliore, dobbiamo pulire meglio, dobbiamo non avere discariche abusive, dobbiamo non avere sporcizia in campagna, e tutte queste cose qui, quindi, le dobbiamo fare»).
Per quanto riguarda poi l’impianto dell’area industriale di Cagliari, l’unica preoccupazione del Presidente della Regione sembra essere l’alto costo dello smaltimento. «C’è una cosa importante per il termovalorizzatore di Cagliari – ha detto infatti Soru l’11 dicembre scorso alla Consulta delle autonomie locali, nel corso della presentazione del Piano regionale rifiuti –: non si può più far finta di non sapere che smaltisce a 130-140 euro a tonnellata, laddove i privati che si finanziano il loro impianto di smaltimento, lo smaltiranno a 60, massimo 70 euro».
Ma se il miglior antidoto al pericolo inceneritori è, secondo gli studiosi di cui abbiamo prima diffusamente parlato, la raccolta differenziata, ecco che la situazione nell’isola appare comunque sensibilmente migliorata in questi ultimi anni.
Il timore dei fautori della raccolta differenziata e della strategia del professor Connet ,“Rifiuti zero”, è però che le recenti dimissioni dell’assessore regionale dell’Ambiente, Tonino Dessì, fermo sostenitore della raccolta differenziata e del “ porta a porta”, possano in qualche modo indebolire la politica sinora portata a avanti dalla Regione a favore della differenziata, a tutto vantaggio del ricorso incontrollato all’inceneritore.
Il presidente della Regione Sardegna, Renato Soru, e l'ex assessore regionale della Difesa dell'Ambiente, Tonino Dessì
Il presidente della Regione Sardegna, Renato Soru, e
l'ex assessore regionale della Difesa dell'Ambiente,
Tonino Dessì
È un timore che traspare, neppure tanto velatamente, anche dalle parole di un recente articolo sul problema rifiuti scritto dallo stesso ex assessore dell’Ambiente Dessì: «Anche per fugare troppi luoghi comuni (sui quali ho spesso dissentito dal presidente Soru, il quale ebbe modo di dirmi, in uno degli ultimi nostri colloqui, che la raccolta differenziata costituirebbe una mera scelta ideologica e che in Sardegna essa gli appariva destinata al fallimento), io suggerirei a quanti oggi, stimolati dalla vicenda della Campania, vanno discutendo sul tema dei rifiuti, di acquisire i dati della performance sarda degli ultimi due anni e mezzo, desumibili dal 7° rapporto dell’Osservatorio sardo sui rifiuti, relativo al 2005 (pubblicato sul sito Internet della Regione). Il diffondersi in Sardegna della raccolta differenziata, mediante l’applicazione, a decorrere dalla seconda metà del 2004, di un inflessibile meccanismo di premialità incentivanti e di penalizzazioni, ha consentito – scrive Dessì – la riduzione del trend d’aumento della produzione di rifiuti, fino alla “crescita zero” registratasi nel 2005, dopo decenni di crescita costante pari al 3,5 per cento annuo. Oggi la Sardegna non è più, come è stata fino al 2003, l’ultima regione d’Italia nella classifica della raccolta differenziata, ma risulta una delle prime del Centro-Sud».
Continuando sulla strada intrapresa i risultati dei prossimi anni, conclude Dessì, dovrebbero essere ancor più positivi: «se non si abbandona la severa linea finora impostata e, soprattutto, se i grandi centri urbani finalmente daranno il loro contributo».
Una strategia che ha consentito, secondo Dessì, di non esaurire nell’isola le volumetrie residue delle discariche realizzate e «di superare i numerosi momenti di crisi del sistema sardo senza rischiare mai un’emergenza analoga a quella campana».
“Il Diavolo brucia, Dio ricicla”, dice l’efficace slogan coniato dal professor Paul Connet. Ora, sta alla Giunta Soru scegliere una delle due opzioni indicate dallo scienziato statunitense.

 

 (1) Stefano Montanari è il direttore scientifico del laboratorio Nanodiagnostic di Modena. È anche collaboratore scientifico nel Laboratorio dei Biomateriali dell’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia in cui sono state sviluppate ricerche in collaborazione con l’Imperial College di Londra per i biovetri, e con il Royal Free Hospital di Londra, l’Università di Cambridge e l’Università tedesca di Mainz per le nanopatologie. Con Antonietta Gatti, direttrice del laboratorio di Biomateriali, ha svolto ricerche sulle nanopatologie con risultati importantissimi riconosciuti a livello mondiale. Agli studi di Stefano Montanari hanno collaborato tre premi Nobel alla chimica uno dei quali, Richard Swalley, recentemente scomparso proprio a causa di una nanopatologia da contatto, ha deciso, prima di morire, di donare parte delle sue cellule a Montanari.