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Sud Italia, uno su tre a rischio povertà

Lievi segni di ripresa per l’economia dell’isola

Il testo della nuova legge regionale sul Piano Casa

 

Sud Italia, uno su tre a rischio povertà

 

Sardegna industriale n. 3-4/2015 - 1  Settembre 2015 

Sud Italia
uno su tre a rischio povertà 

Rischio povertà nel Sud Italia per una persona su tre. Per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo, con il 62% della popolazione che ha  guadagnato meno di 12mila euro annui. Dal 2000 al 2013 il Sud è cresciuto del 13%, la metà della Grecia. L’'assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all'area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente. È la fotografia dell’economia del Mezzogiorno contenuta nell’anticipazione del Rapporto Svimez 2015, che sarà presentato a Roma nel prossimo ottobre.


Un Paese diviso e diseguale, dove il Sud scivola sempre più nell’arretramento: nel 2014 per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno è ancora negativo (-1,3%); il divario di Pil procapite è tornato ai livelli di 15 anni fa; negli anni di crisi 2008-2014 i consumi delle famiglie meridionali sono crollati quasi del 13% e gli investimenti nell’industria in senso stretto addirittura del 59%; nel 2014 quasi il 62% dei meridionali guadagna meno di 12mila euro annui, contro il 28,5% del Centro-Nord.Questa la fotografia che emerge dalle anticipazioni del Rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno 2015, che sarà presentato a Roma nel prossimo mese di ottobre.

In base a valutazioni Svimez nel 2014 il Pil è calato nel Mezzogiorno dell’1,3%, rallentando la caduta dell’anno precedente (-2,7%), con un calo superiore di oltre un punto percentuale rispetto al Centro-Nord (-0,2%). Da rilevare che per il settimo anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno registra segno negativo, a testimonianza della permanente criticità dell’area. Il peggior andamento del Pil meridionale nel 2014 è dovuto soprattutto ad una più sfavorevole dinamica della domanda interna, sia per i consumi che per gli investimenti. Anche gli andamenti di lungo periodo confermano un Paese spaccato e diseguale: negli anni di crisi 2008-2014 il Sud ha perso -13%, circa il doppio del pur importante -7,4% del Centro-Nord. Il divario di Pil pro capite tra Centro-Nord e Sud nel 2014 ha toccato il punto più basso degli ultimi 15 anni, tornando, con il 53,7%, ai livelli del 2000.

A livello regionale nel 2014 segno negativo per quindici regioni italiane su venti; si distinguono soltanto le Marche quasi stazionarie (+0,1%), lo +0,3% dell’Emilia Romagna e del Trentino Alto Adige, +0,4% del Veneto. Miglior performance in assoluto a livello nazionale per il Friuli Venezia Giulia, +0,8%. Le regioni del Centro-Nord oscillano tra il -0,3% del Lazio e della Toscana e il -1-1% dell’Umbria. Piemonte e Valle d’Aosta segnano -0,7%. Nel Mezzogiorno la forbice resta compresa tra il -0,2% della Calabria e il -1,7% dell’Abruzzo, fanalino di coda nazionale. In posizione intermedia la Basilicata (-0,7%), il Molise (-0,8%), la Campania (-1,2%). Giù anche la Sicilia (-1,3%), e Puglia e Sardegna, allineate a -1,6 per cento.
Guardando agli anni della crisi, dal 2008 al 2014, anche se risultano negative tutte le regioni italiane, a eccezione dell’Umbria (-13,7%), delle Marche (-13%) e del Piemonte (-12%), le perdite più pesanti sono al Sud, con profonde difficoltà in Puglia (-12,6%), Sicilia (-13,7%), Campania (-14,4%). Situazione ancora più negativa in Basilicata (-16,3%) e Molise (-22,8%).

Dal 2001 al 2014 il tasso di crescita cumulato è stato + 15,7% in Germania, +21,4% in Spagna, + 16,3% in Francia. Negativa la Grecia, con -1,7%, ma mai quanto il Sud, che, con -9,4% tira giù al ribasso il dato nazionale (-1,1%), contro il +1,5% del Centro-Nord.
In termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2014 è sceso al 53,7% del valore nazionale, un risultato mai registrato dal 2000 in poi. In valori assoluti, a livello nazionale, il Pil è stato di 26.585 euro, risultante dalla media tra i 31.586 euro del Centro-Nord e i 16.976 del Mezzogiorno.

Nel 2014 la regione più ricca è stato il Trentino Alto Adige, con 37.665 euro, seguito dalle Valle d’Aosta (36.183), dalla Lombardia (35.770), l’Emilia Romagna (33.107 euro) e il Lazio (30.750 euro). Nel Mezzogiorno la regione con il Pil pro capite più elevato è stata l’Abruzzo (22.927 euro); seguono la Sardegna (18.808), la Basilicata (18.230 euro), il Molise (18.222 euro), la Puglia (16.366), la Campania (16.335), la Sicilia (16.283). La regione più povera è la Calabria, con 15.807 euro.
Il divario tra la regione più ricca, il Trentino Alto Adige, e la più povera, la Calabria, è stato nel 2014 pari a quasi 22mila euro.

I consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, continuando a ridursi nel 2014 dello 0,4%, a fronte di un aumento del +0,6% nelle regioni del Centro-Nord. Qui si è registrato un recupero dei consumi di beni durevoli, con un aumento delle spese per vestiario e calzature (+0,3%) e di altri “beni e servizi”, categoria che racchiude i servizi per la cura della persona e le spese per l’istruzione (+0,9%). In crescita nel Centro-Nord anche i consumi alimentari (+1%), a fronte della contrazione del Mezzogiorno (-0,3%). In generale nel 2014 i consumi pro capite delle famiglie del Mezzogiorno sono stati pari al 67% di quelli del Centro-Nord.

Guardando invece agli anni di crisi 2008-2014, la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha superato nel Mezzogiorno i 13 punti percentuali (-13,2%), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,5%). In particolare, negli anni 2008-2014 il calo cumulato della spesa è stato al Sud del -15,3% per i consumi alimentari, a fronte del -10,2% del Centro-Nord; e di ben il -16% per il vestiario e calzature, il doppio del resto del Paese (-8%).Significativo e preoccupante anche il crollo della spesa delle famiglie relativo agli altri “beni e servizi”, che racchiudono, come indicato, i servizi per la cura della persona e le spese per l’istruzione: -18,4% alSud, oltre tre volte in più rispetto al Centro-Nord (-5,5%) Anche nel 2014 gli investimenti fissi lordi hanno segnato una caduta maggiore al Sud rispetto al Centro-Nord: -4% rispetto a -3,1%. Dal 2008 al 2014 sono crollati del 38% nel Mezzogiorno e del 27% nel Centro-Nord, con una differenza tra le due ripartizioni di 11 punti percentuali.

A livello settoriale, crollo epocale al Sud degli investimenti dell’industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del 59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-17,1%). Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del -47,4% al Sud e del - 55,4% al Centro-Nord; in agricoltura, (-38% al Sud, quasi quattro volte più del Centro-Nord, -10,8%). Quasi allineata nella crisi la dinamica dei servizi: -33% al Sud, -31% al Centro-Nord. In tempi di spending review, è interessante rilevare che a livello nazionale dal 2001 al 2013 la spesa pubblica in conto capitale è diminuita di oltre 17,3 miliardi di euro, passando da 63,7 a 46,3 miliardi di euro. Fatto pari a 100 il livello complessivo del 2001, nel 2013 la spesa è scesa al 72,2%, quale media tra l’80% del Centro-Nord e il 61% del Sud. In altri termini, dal 2001 al 2013 la spesa nel Mezzogiorno è diminuita di 9,9 miliardi di euro, passando da 25,7 a 15,8. In più, la spesa complessiva in conto capitale della PA è arrivata a pesare nel Mezzogiorno nel 2013 sul totale del Paese per il 34,1%, cifra nettamente inferiore all’obiettivo programmatico del 45% fissato in vari documenti di programmazione nei primi anni Duemila.

Giù inoltre, soprattutto al Sud, i trasferimenti in conto capitale a favore delle imprese pubbliche e private: tra il 2001 e il 2013 si è registrato un calo del 52%, pari a oltre 6,2 miliardi di euro. A trainare al ribasso i trasferimenti, il crollo degli incentivi alle imprese private.
Negli anni della crisi 2008-2014 la riduzione del valore aggiunto è stata più intensa al Sud in tutti i settori produttivi. Peggio di tutti l’industria: qui il valore aggiunto è crollato al Sud negli anni 2008 – 2014 cumulativamente del -35%, a fronte del -17,2% nel resto del Paese. In calo anche le costruzioni, il cui valore aggiunto è diminuito cumulativamente al Sud del -38,7% a fronte del - 29,8% del Centro-Nord. Scendono nel periodo in questione anche i servizi, -6,6% al Sud e -2,6% al Centro-Nord. Segno negativo anche se si guarda al solo 2014, ma soprattutto al Sud: l’agricoltura perde infatti nel Mezzogiorno addirittura -6,2%, mentre il Centro-Nord guadagna +0,4%; l’industria flette nel Sud del 3,3%, una perdita di due punti percentuali superiore a quella del Centro-Nord (-1,3%); i servizi segnano -0,5% al Sud contro +0,3% dell’altra ripartizione.

Dal 2008 al 2013 il Pil è aumentato del 3,6% nell’area dell’euro (18 Paesi) ma con andamenti decisamente differenti a seconda delle regioni: +4,5% nelle aree più forti, le regioni della Competitività, -1,1% nelle aree più deboli, le regioni della Convergenza, cioè le aree più povere che dall’inizio del ciclo di programmazione avevano un reddito pro capite inferiore al 75% della media europea. Andamento diverso nelle stesse aree invece nel periodo pre-crisi 2001-2007: le regioni più deboli dell’Area Euro avevano mostrato segni di effettiva convergenza, crescendo del 39,6%, addirittura più delle aree forti (+31,3%).

Interessante rilevare le dinamiche dei tre grandi paesi europei che ospitano molte regioni Convergenza, cioè Spagna, Germania e Italia. In Spagna negli anni 2001-2007 pre-crisi la crescita cumulata delle aree più deboli è stata superiore a quella delle aree più forti (+62,4% contro +55,4%). Successivamente, dal 2008 al 2013, la flessione delle aree della Convergenza è stata invece superiore a quella delle regioni Competitività (-5,1% contro -3,2%). In Germania si registra invece una maggiore omogeneità sia nei periodi pre e di crisi, sia a livello territoriale: dal 2001 al 2007 le aree Convergenza e Competitività tedesche sono cresciute rispettivamente del 28,2% e del 29,1%; negli anni 2008-2013, a differenza della Spagna e dell’Italia, le due aree hanno registrato un segno positivo, rispettivamente del +8,5% e del +9,7%, segno di una forte sintonia di crescita tra le regioni tedesche occidentali e i Laender orientali. Non così in Italia, dove, nel periodo pre crisi, Sud e Centro-Nord sono cresciuti rispettivamente del 19% e del 21,8%, con una differenza di tre punti percentuali, mentre hanno rilevato andamenti divergenti negli anni 2008-2013: +0,6% il Centro-Nord, -5,1% al Sud. In generale, comunque, le asimmetrie interne alle regioni periferiche dell’Europa si sono aggravate a partire dal 2004, con l’allargamento ad Est dell’Unione; da quel momento il Sud ha sofferto in misura crescente la concorrenza del dumping fiscale e della mancanza degli obblighi valutari dei nuovi Stati membri.

Da segnalare che in tredici anni, dal 2000 al 2013, l’Italia è stato il Paese che, in termini di Pil in Ppa (Parità dei poteri di acquisto), è cresciuto meno di tutti i paesi considerati, +20,6% rispetto al +37,3% dell’area Euro a 18, addirittura meno della Grecia, che ha segnato +24% quale effetto della forte crescita negli anni precrisi, che è riuscita ad attenuare in parte il crollo successivo. Situazione decisamente più critica al Sud, che nel 2001-2013 cresce nel periodo n questione la metà della Grecia, +13%: oltre 40 punti percentuali in meno della media delle regioni Convergenza dell’Europa a 28 (+53,6%).

Nel 2014 a livello nazionale il valore aggiunto del manifatturiero è diminuito dello 0,4% rispetto al 2013, quale media tra il -0,1% del Centro-Nord e il -2,7% del Sud. Un valore ben diverso dalla media della Ue a 28 (+1,6%), con la Germania a +2,1% e la Gran Bretagna a +2,8%.
Complessivamente negli anni 2008-2014 il valore aggiunto del settore manifatturiero è crollato in Italia del 16,7% contro una flessione dell’Area Euro del -3,9%. A pesare, ancora una volta, soprattutto il Mezzogiorno: dal 2008 al 2014 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 34,8% del proprio prodotto, e ha più che dimezzato gli investimenti (-59,3%). La crisi non è stata altrettanto profonda nel Centro-Nord, dove la diminuzione è stata meno della metà, -13,7% del prodotto manifatturiero e circa un terzo negli investimenti (-17%).
Nel 2014 la quota del valore aggiunto manifatturiero sul Pil è stata pari al Sud all’8%, un dato ben lontano dal 17,9% del Centro - Nord e dal 20% fissato dalla Commissione europea nella nuova strategia di politica industriale. In deciso ribasso anche la capacità produttiva; rispetto ai livelli pre crisi il Sud ha perso oltre il 30%, contro il -17% del Centro-Nord e il -5% della media della Ue a 28. Tra il 2007 e il 2013 è sceso anche lo stock di capitale lordo, -7,4% al Sud, + 3,1% nel resto del Paese.

Quanto agli occupati, nel 2014 gli addetti al comparto scendono dello 0,2% al Sud contro il +0% dell’altra ripartizione. Nell’intero periodo 2008-2014, comunque, la caduta dell’occupazione è stata di oltre il -20% al Sud, contro il -13,4% del Centro-Nord. In continua discesa anche la produttività del manifatturiero meridionale, sceso al 58,2% del Centro-Nord nel 2014 (nel 2000 era pari al 74,5% dell’altra ripartizione).

Negative al Sud nel 2014 anche le esportazioni, -4,8%, che sono cresciute invece nel Centro-Nord (+3%). Stesse dinamiche se si osservano gli anni 2008-2014: -2,1% al Sud, +11,1% al Centro-Nord. In questo quadro pesa decisamente il crollo delle agevolazioni concesse alle imprese private: dal 2008 al 2013 sono scese al Centro-Nord del -17%, passando da 3,2 a 2,6 miliardi di euro, mentre al Sud sono sprofondate del 76%, passando da 5,5 a 1,3 miliardi di euro. Le agevolazioni alle imprese del Mezzogiorno sul totale nazionale si sono quindi dimezzate: erano il 63,5% nel 2008, sono diventate il 33,2% nel 2013.

Il Sud è ormai a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all’area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente.
Il Mezzogiorno tra il 2008 ed il 2014 registra una caduta dell’occupazione del 9%, a fronte del -1,4% del Centro-Nord, oltre sei volte in più. Delle 811mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro nel periodo in questione, ben 576mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, dunque, pur essendo presente appena il 26% degli occupati italiani si concentra il 70% delle perdite determinate dalla crisi.

Nel 2014 i posti di lavoro in Italia sono cresciuti di 88.400 unità, tutti concentrati nel Centro-Nord (133mila). Il Sud, invece, ne ha persi 45mila. Il numero degli occupati nel Mezzogiorno torna così a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni; il livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono disponibili le serie storiche dell’Istat. Tornare indietro ai livelli di quasi quarant’anni fa testimonia, da un lato, il processo di crescita mai decollato, e, dall’altro, il livello di smottamento del mercato del lavoro meridionale e la modifica della geografia del lavoro. Segnali di un debole miglioramento nell’ultimo periodo: tra il primo trimestre del 2014 e quello del 2015 gli occupati sono saliti in Italia di 133mila unità, di cui 47mila al Sud e 86mila al Centro-Nord. In calo le persone in cerca di occupazione, scese in Italia nel primo trimestre 2015 a 3 milioni 302mila unità, 145mila in meno rispetto all’anno precedente.

Le donne continuano a lavorare poco: nel 2014 a fronte di un tasso di occupazione femminile medio del 51% nell’Ue a 28 in età 35-64 anni, il Mezzogiorno è fermo al 20,8%. Ancora peggio se si osserva l’occupazione delle giovani donne under 34: a fronte di una media italiana del 34% (in cui il Centro-Nord arriva al 42,3%) e di una europea a 28 del 51%, il Sud si ferma al 20,8%. Tra i 15 e i 34 anni è quindi occupata al Sud solo una donna su 5. Dal 2008 al 2014, inoltre, i posti di lavoro per le donne sono cresciute di 135mila unità al Centro-Nord, mentre sono scesi di 71mila al Sud. Quanto ai tipi di lavoro, crescono nel periodo in questione del 14% le professioni non qualificate, mentre diminuiscono del 10% le qualificate.

Continua l’andamento contrapposto dell’occupazione tra i giovani e i meno giovani. I primi, under 34, hanno visto perdere in Italia dal 2008 al 2014 oltre 1 milione e 900mila posti di lavoro, pari a -27,7%; quasi il -32% al Sud. Il Sud negli anni 2008-2014 perde 622mila posti di lavoro tra gli under 34(-31,9%) e ne guadagna 239mila negli over 55. Il tasso di disoccupazione arriva nel 2014 al 12,7% in Italia, quale media tra il 9,5% del Centro-Nord e il 20,5% del Sud. Colpiti ancora i più giovani: gli under 24 nel 2014 registrano un tasso di disoccupazione del 35,5% nel Centro-Nord e quasi del 56% al Sud. In più, rispetto alla media europea a 28 del 76%, i giovani diplomati e laureati italiani presentano un tasso di occupazione di oltre 30 punti più basso, pari al 45%.

Si inizia a credere che studiare non paghi più, alimentando così una spirale di impoverimento del capitale umano, determinata da emigrazione, lunga permanenza in uno stato di disoccupazione e scoraggiamento a investire nella formazione avanzata. I 3 milioni 512mila giovani Neet (Not in education, employment or training) nel 2014, sono aumentati di oltre il 25% rispetto al 2008. Di questi, quasi due milioni sono donne, e quasi due milioni sono meridionali.

Dal 2001 al 2014 la popolazione è cresciuta a livello nazionale di circa 3,8 milioni, di cui 3,4 milioni al Centro-Nord e 389mila al Sud. In dieci anni, dal 2001 al 2014 sono migrate dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord oltre 1 milione 667mila persone, rientrate 923mila, con un saldo migratorio netto di 744mila persone, di cui 526mila under 34 e 205mila laureati. Il tasso di fecondità al Sud è arrivato a 1,31 figli per donna, Ben distanti dai 2,1 necessari a garantire la stabilità demografica, e inferiore comunque all’1,43 del Centro-Nord. Nel 2014 al Sud si sono registrate solo 174mila nascite, il valore più basso dall’Unità d’Italia; nel 1862 i nati furono 391mila, 217mila in più di oggi. Nascite in calo anche al Centro-Nord e, per la prima volta, anche nelle coppie con almeno un genitore straniero, che in precedenza avevano invece contribuito ad alimentare la ripresa della natalità nell’area. Il Sud sarà quindi interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, a fronte di una crescita di 4,6 milioni nel Centro-Nord, arrivando così a pesare per il 27,3% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3 per cento.

In Italia negli ultimi tre anni, dal 2011 al 2014, le famiglie assolutamente povere sono cresciute a livello nazionale di 390mila nuclei, con un incremento del 37,8% al Sud e del 34,4% al Centro-Nord. Quanto al rischio povertà, nel 2013 in Italia vi era esposto il 18% della popolazione, ma con forti differenze territoriali: 1 su 10 al Centro-Nord, 1 su 3 al Sud. La regione italiana con il più alto rischio di povertà è la Sicilia (41,8%), seguita dalla Campania (37,7%). La percentuale di famiglie in povertà assoluta sul totale delle famiglie è aumentata al Sud nel 2014 rispetto al 2011 del 2,2% (passando dal 6,4% all’8,6%) contro il +1,1% del Centro-Nord (dal 3,3% al 4,4%). Nel periodo 2011-2014 al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute di oltre 190milanuclei in entrambe le ripartizioni, passando da 511mila a 704mila al Sud e da 570mila a 766mila al Centro-Nord.

A livello di reddito, guadagna meno di 12mila euro annui quasi il 62% dei meridionali, contro il 28,5% del Centro-Nord. Particolarmente pesante la situazione in Campania (quasi il 66% dei nuclei guadagna meno di 12mila euro annui), Molise (70%) e Sicilia (72%).