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Paolo Savona
La Sardegna non è un'isola
Giacomo Mameli
Un’industria diversa per lo sviluppo
Alessandro Ovi
Nel mondo di Internet

Vent'anni di informazione sulle vicende dell'economia della Sardegna (dal 1980 al 1999) - Parte prima: indice per argomento

Vent'anni di informazione sulle vicende dell'economia della Sardegna (dal 1980 al 1999) - Parte seconda: indice per autore

 

La Sardegna non è un'isola
Paolo Savona

 

L’affermazione che la Sardegna non sia un’isola può apparire un paradosso, ma è l’unica conclusione che si può trarre considerando sia i modi in cui altre isole (come Taiwan) si sono sviluppate sia i più recenti sviluppi dell’informatica e della globalizzazione. L’insularità della Sardegna, che tanto ha pesato sulla formazione del suo modello culturale e del suo sviluppo, non è mai stata un alibi valido al non agire da parte dei suoi gruppi dirigenti, né tantomeno lo è oggi. La Sardegna appare ancora un’isola per le illusioni sparse a piene mani e la sua insularità è frutto degli errori commessi nell’impostare il suo sviluppo.

Si è infatti tentato di superare l’isolamento fisico con politiche di industrializzazione assistita, tra le quali vi è il riconoscimento almeno parziale della “continuità territoriale”. Il meridionalismo – denso di passione statalista o, quanto meno, interventista –, spingeva a compensare finanziariamente ogni genere di ostacolo allo sviluppo, invece di prefiggersi di rimuoverlo; ma così facendo, invece di ridurre l’insularità, non si accorgeva che l’accresceva, spostando la Sardegna dall’isolamento fisico all’isolamento economico. Invece di cercare le politiche che potevano suscitare attività capaci di affermarsi sostentandosi sui mercati si è puntato allo sviluppo di imprese dipendenti dall’assistenza pubblica, compresi i contributi alle spese di trasporto. Affermatesi le regole della competizione globale e venuta meno la possibilità di attingere risorse dal bilancio statale, queste politiche hanno lasciato un’eredità forse peggiore di quella da cui la Sardegna ha preso le mosse del suo sviluppo: mancano condizioni autopropulsive dell’attività economica, con l’aggravante di dover difendere livelli di benessere propri di una società economicamente progredita.

Sotto la spinta dell’intervento pubblico, la società agro-pastorale si  è  rapidamente  e  inconsciamente  tramutata  in  società pseudoindustriale e altrettanto rapidamente in società di servizi incorporando modelli elevati di consumi privati e modelli di welfare molto avanzati che, per essere sostenuti, richiedono livelli di produzione e di reddito tra loro coerenti. I consumi delle famiglie sarde superano in via permanente la produzione e il divario tra i due deve essere colmato importando risorse dall’esterno. L’assistenza pubblica non è più in condizione di colmare questo divario e l’economia isolana non ha ancora la forza di ottenerle dal mercato, con la conseguenza che il livello di benessere degrada creando frustrazione nelle popolazioni e soprattutto nei giovani senza prospettiva di occupazione.

In questa analisi si rinviene l’eco delle esortazioni costantemente rivolte alla Sardegna di programmare il suo sviluppo badando ai mercati esteri piuttosto che a quello interno, la cui dimensione resta vincolata dalla bassa densità di abitanti. Lo sviluppo del turismo non ha agevolato la comprensione del problema e l’indispensabilità di una sua soluzione: il turismo è un modo per collocare i prodotti sardi all’esterno dell’Isola (esso riguarda, pertanto,sia il turismo italiano che quello estero), corrisponde cioè alla ricordata necessità di collocare la produzione isolana presso acquirenti non sardi, ma mantiene le caratteristiche di consumo interno perché utilizzata “in casa”. Ciò fa ritenere che al turismo possano essere applicate le vecchie regole del mercato, quelle del basso impegno dei produttori e dell’altrettanto bassa efficienza, in breve del vivere di rendita “tanto la Sardegna è bella” e la domanda si esprime comunque.

L’orientamento al mercato globale in termini di spazi fisici e di regole riguarda l’intero prodotto della Sardegna, sia esso quello agropastorale  di  tipo  tradizionale,  sia  quello  industriale  e paraindustriale, sia (e soprattutto!) l’intero settore dei servizi. Non vale obiettare che i costi di trasporto impediscono tutto ciò, perché quanto più si ha di mira un territorio lontano, tanto meno le produzioni sarde patiranno il costo del loro isolamento rispetto ai concorrenti che si prefiggono di conquistare gli stessi mercati. Le merci viaggiano in lungo e in largo per il mondo restando competitive, se tali sono, per la Sardegna come per il lontano Oriente.

Il fatto, tuttavia, che la Sardegna non sia un’isola non è legato oggi solo all’esistenza di uno spazio sul mercato globale, che può essere sempre conquistato dalle proprie merci pagando costi di trasporto, ma alla preparazione dei sardi nell’avvalersi pienamente dei progressi delle telecomumcazioni. Il caso di Tiscali è un esempio da manuale, ma non è l’unico uso possibile delle fantastiche possibilità aperte ai giovani (e ai meno giovani che non hanno preclusioni tecnologiche...). Se collocare un prodotto sui mercati globali è compito comunque arduo (chi lo nega?) e richiede capitali, collocare il lavoro diviene oggi più agevole e necessita di poco capitale. Questa possibilità viene incontro al carattere chiuso della gran parte dei giovani sardi che,un po’ per via della cultura “assorbita”, un po’ per l’assistenza offerta dal settore pubblico e dalla famiglia, non hanno lo spirito di avventura per cercare impiego all’esterno dell’Isola. Il telelavoro ha le stesse caratteristiche del turismo: è cioè un prodotto venduto all’esterno, ma prodotto e consumato “in casa”.

Collocare lavoro invece di prodotti richiede tuttavia un’azione energica che si sviluppa in tre direzioni: l’educazione dei giovani alle nuove tecnologie informatiche, l’effettuazione di un marketing incisivo delle capacità di lavoro disponibili e la concessione di garanzie che il lavoro commissionato sarà svolto nei tempi e nei modi richiesti. I giovani informatici del Bangladesh hanno avuto successo e i sardi non hanno minori capacità intellettuali. In questa triplice azione il settore pubblico e i privati hanno compiti importanti da svolgere, ma il primo li ha per un tempo limitato e con caratteristiche compatibili con  le regole  dell’Unione europea.  L’Italia ha  largamente sperimentato l’utilità dei distretti industriali, che creano economie esterne alle imprese e hanno in sé una carica autopropulsiva dello sviluppo. La Sardegna deve riuscire a creare un distretto di telelavoro se vuole “quadrare il cerchio” del suo sviluppo e del benessere delle popolazioni.

In breve, non ci sono più scusanti: la Sardegna non è un’isola, se non vuole esserlo!